Con il passare del tempo le modalità con le quali ci si è dedicati a i giovani ed alla loro educazione sembrano essere profondamente mutate e così ci si è ritrovati a declinare il verbo “educare”...
Con il passare del tempo le modalità con le quali ci si è dedicati ai giovani ed alla loro educazione sembrano essere profondamente mutate e così ci si è ritrovati a declinare il verbo “educare” in varia maniera.
A tal proposito il sociologo e psichiatra Paolo Crepet pone l’accento proprio sull’atteggiamento strabico, ambiguo e contraddittorio degli adulti nei confronti dell’educazione delle nuove generazioni.
Da un lato vi è chi considera tale impegno come un peso, una responsabilità eccessiva, sperando che gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza possano passare in fretta e senza lasciare cicatrici. Si tratta di un atteggiamento «pedofobico», tipico di chi non riesce ad identificarsi in ciò che si attribuisce all’età evolutiva: gioia, purezza, incanto e creatività libera ed incondizionata. Si tratta di soggetti che considerano i primi anni di vita come un percorso da accelerare, «adulto-centrici», che ritengono fondamentale unicamente cercare di semplificare il più possibile il raggiungimento dell’età successiva.
Ciò genera spesso grandi sensi di colpa generati da scarsa disponibilità o forse da un senso di inadeguatezza. Al contrario c’è invece chi pensa che l’educazione sia diventata un’impresa difficilissima, una sorta di prova da superare per gli adulti: i genitori si sentono così costantemente impreparati ad esercitare il ruolo genitoriale, ad assumersi le proprie responsabilità. Nel mezzo vi è chi crede ancora in un progetto di crescita, chi ama la sfida educativa per diventare adulti migliori.
In realtà la relazione tra genitori e figli e le modalità con le quali approcciarsi a svolgere la funzione di educatore sono completamente mutate.
Prima, infatti, il progetto educativo si fondava su alcune regole basilari: la speranza era che i figli nascessero in salute, avessero cibo sufficiente per sopravvivere, vestiti per coprirsi ed i genitori dovevano sperare di avere denaro abbastanza a garantire loro l’istruzione necessaria per un lavoro migliore del proprio. Quindi occorreva rispettare chi garantiva la sopravvivenza e proteggeva la famiglia. Sussisteva una forte cooperazione fra genitori, nonni ed altri educatori mentre i bambini e gli adolescenti non avevano un ruolo proprio ma erano estremamente grati a chi li aveva messi al mondo e aveva permesso loro di non morire troppo presto.
“La struttura familiare non poteva che fondarsi su un modello educativo piramidale, autoritario, proprio in quanti tali regole basilari non potevano e non dovevano essere messe in discussione, pena la perdita del controllo dell’intera impalcatura domestica, pilastro portante dell’intera comunità famiglio-centrica”, queste le parole di Paolo Crepet.Con il boom economico, invece, tutto è cambiato: il benessere economico raggiunto ha avuto delle ripercussioni anche sulle stesse regole educative. “Molti genitori hanno interpretato la più ampia circolazione del denaro, il maggior benessere percepito dalle famiglie come un inaspettato segnale di cambiamento che avrebbe dovuto coinvolgere anche il proprio ruolo educativo e
il grado delle loro responsabilità: per la prima volta nella storia il loro mestiere non avrebbe più dovuto essere incentrato sulla preoccupazione di garantire migliori condizioni materiali ai figli”, così ci spiega lo psichiatra in maniera chiara e dettagliata. Si passò ad un’educazione liquida, dove ciò che era fondamentale è quanto i genitori potessero donare ai loro figli: una profusione di denaro per concedere il superfluo, passando dall’insegnamento del dovere al diritto di pretendere, soprattutto ciò che non è essenziale. Dall’autoritarismo si giunse a quello che Paolo Crepet definisce «permissivismo educativo».
Tale new deal educativo ha visto da un lato la crescita di genitori con grandi sensi di colpa, sentendosi in difetto rispetto al ruolo di «datori», dall’altro i figli non sono più in grado di creare, di costruire senza il loro sostegno, proprio perché cresciuti con l’idea che i genitori dovessero essere sempre presenti, disponibili e generosi. Ciò determinò conseguenze estremamente negative divenendo i giovani incapaci di affrontare la cruda realtà, che presuppone capacità autonome di sopravvivenza e progettazione.
Più che a degli educatori i genitori somigliano a dei bancomat: il genitore liquido preferisce e ritiene più semplice donare denaro al figlio piuttosto che garantire la sua vicinanza, il suo tempo, in quanto guida e punto di riferimento. L’apprensione genitoriale è quella di «non far mai mancare niente» ai propri figli: bambini ed adolescenti devono essere colmi, sazi anche di sciocchezze, di cose futili e di libertà non essenziali.
D’altronde sono davvero pochissimi i genitori che offrono ad i loro figli tempo, dedizione, fungendo da esempio, piuttosto che denaro, oggetti o libertà non essenziali.
Tuttavia Paolo Crepet, in maniera significativa, ci fa comprendere come occorra riscoprire il coraggio di educare, che risiede nella capacità di togliere, non di aggiungere.
“Possedere il coraggio di educare significa essere capaci di credere nei ragazzi, di pensare che riusciranno a camminare con le loro gambe, esattamente come sono stati in grado di fare i loro genitori”, così conclude la sua riflessione lo psichiatra. Occorre, quindi, che gli adulti ritrovino l’audacia di saper rischiare sui propri figli, credendo fino in fondo nelle loro capacità e nel loro talento.
di VALENTINA TROPEA