“Il problema degli orari non è questione secondaria: il tempo pieno permetterebbe alla scuola di passare dall’istruzione all’educazione offrendo tempi, luoghi e attività finalizzati a dare non solo nozioni, ma soprattutto…”
Esprimere un giudizio in merito alla condizione in cui versa la scuola italiana non è semplice né tantomeno può estrinsecarsi con superficialità o leggerezza.
In merito a tale argomentazione, assai delicata, il sociologo e psichiatra Paolo Crepet, nel suo libro “La gioia di educare”, propone una disamina articolata e dettagliata, frutto di una significativa analisi e di una profonda riflessione.
A tal proposito, in riferimento alla scuola italiana, sono proprio alcuni dati che ci danno contezza della situazione in cui ci troviamo: su mille iscritti alla prima media solo centosettantatre si laureano; su dieci che conseguono la licenza media inferiore soltanto sei ottengono quella superiore; negli istituti tecnici industriali e commerciali quasi il sessanta per cento degli studenti riporta un voto medio insufficiente.
Occorre capire fino in fondo, cosi ci spiega Paolo Crepet, che “la scuola non deve rispettare prioritariamente i diritti degli insegnanti, ma quelli dei bambini e degli adolescenti”.
Non è una semplice laurea che fa di un insegnante un buon insegnante, in grado di trasmettere il suo sapere e con delle adeguate capacità pedagogiche.
“La scuola italiana naviga a vista tra concrete speranze di cambiamento e seri pericoli di regresso, preda di una strana contraddizione: tutti – insegnanti, studenti, genitori, esperti pedagogisti – hanno buone ragioni per criticarla, ma nulla sembra scuoterla da una sostanziale immodificabilità”, queste le parole dello psichiatra.
Qualcosa è sicuramente cambiato, basti pensare ad asili nido e alle scuole materne, ma ciò che determina malcontento è la qualità globale dell’offerta educativa.
Tuttavia, la scuola non sembra adeguarsi alle esigenze della società civile attuale: non è ancora, per certi versi, il luogo dei giovani, in cui si predilige il benessere e gli interessi dei ragazzi.
Ecco allora la soluzione che ci propone il sociologo Paolo Crepet: “occorre rinegoziare un patto tra famiglia e scuola ove ognuna assuma nuove competenze e obblighi”.
La scuola deve reinventarsi ed il tempo pieno svolge una funzione importantissima, mentre la famiglia deve recuperare la propria responsabilità educativa.
“Il problema degli orari non è questione secondaria: il tempo pieno permetterebbe alla scuola di passare dall’istruzione all’educazione offrendo tempi, luoghi e attività finalizzati a dare non solo nozioni, ma soprattutto opportunità di crescita; consentirebbe alla famiglia di riconoscersi in un tempo non più costretto e scandito dai frammenti dei pranzi o delle partite domenicali: una scuola finalmente autarchica, dove i ragazzi iniziano e finiscono il loro impegno senza allungarlo insensatamente con i compiti da fare a casa”, questa la significativa riflessione di Crepet.
Spesso le rivendicazioni di alcuni insegnanti sono solo di tipo economico e scisse da una verifica periodica del loro operato. Ci si chiede, infatti, se esistano dei docenti disposti a sottoscrivere dei contratti che prevedano aumenti salariali basati sul merito e non sull’anzianità ma che allo stesso tempo prevedano anche la possibilità di esonerare gli insegnanti in caso di accertata incapacità o ignoranza.
Nonostante gli attuali limiti, molti insegnanti, attraverso strumenti ed obiettivi ben diversi, si trasformano in importanti punti di riferimento per i giovanissimi: diventano esempi di coerenza, disponibilità all’ascolto, capacità di giudizio e tolleranza.
Quindi genitori ed insegnanti dovrebbero imparare a collaborare senza mai contrapporsi.
Non bisogna dimenticare, però, che “la scuola spesso diventa una sorta di comodo capro espiatorio per i mali della società, tanto da giungere agli estremi di attribuire agli insegnanti ogni responsabilità su ciò che riguarda la vita dei giovani”.
In realtà sono proprio questi ultimi che tendono ad allontanarsi dalla scuola, che non sentono parte della loro vita, ma anzi percepiscono come luogo nel quale vengono semplicemente giudicati ma mai ascoltati.
Occorre, allora, ripartire proprio da qui, dalla qualità e dignità dell’educare.
La scuola non riesce a produrre legami forti né con gli insegnanti né con gli studenti, non è in grado di essere “accattivante” e quindi l’impossibilità di amare la scuola è misura dell’impossibilità di appartenerle.
A tal proposito spesso si parla di una scuola inefficiente ed in tal caso non si fa riferimento agli insegnanti che aggiornano la loro formazione e comprano libri a proprie spese ma agli educatori “meno scrupolosi”.
D’altronde, sostiene Crepet, quanti di loro insegnano soltanto, senza svolgere nessun’altra attività lavorativa?
“La questione del tempo pieno è fondamentale non certo per una volontà punitiva nei confronti di una categoria professionale, ma per la dignità dell’insegnamento. Un impegno che deve essere visibile, pienamente riconosciuto e remunerato, comprensivo di una formazione non iscritta nella laurea conseguita”, così sostiene lo psichiatra a gran voce.
Ed allora ci si chiede se gli insegnanti siano in grado di riconoscere anche il disagio dei ragazzi, se sia un loro compito, nell’ambito di una società che vede aumentare esponenzialmente i casi di instabilità mentale tra i giovanissimi.
E quindi “se pretende di educare, la scuola ha il compito di saper ascoltare”.
La funzione educativa degli insegnanti diviene così rilevante e preziosissima: attraverso l’ascolto ed il confronto i giovani tendono ad esprimere il loro dolore, la loro angoscia, cosi da instaurare una relazione con il docente, senza sentirsi più soli ma riuscendo a far emergere la paura per poi elaborarla in un secondo momento. In tala maniera l’insegnamento assume la sua connotazione più nobile: si educa a vivere.
“Quando un insegnate spiega le proprie idee non può pretendere di trovare immediata comprensione: la persuasione richiede tenacia, dunque tempo. Lasciamo ai ragazzi la possibilità di innamorarsi gradualmente della nostra forza e della nostra coerenza, se l’abbiamo: impareranno a utilizzare, senza saperlo, la forma più alta di comunicazione”, così ultimando sostiene Paolo Crepet.
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