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Crepet, io ci sto male in questo mondo, e voi? Ci vuole una rivoluzione dove l'empatia diventi il cuore pulsante dei rapporti, ecco perché e come è possibile

Non basta riconoscere l’altro: bisogna desiderarne l’incontro, accettarne la complessità, lasciarsi trasformare da essa. Ma tutto ciò implica...

Paolo Crepet, nel corso di uno dei suoi incontri, ha proposto una riflessione intensa su quello che ha definito un tempo di “apocalisse a bassa intensità”. Il disagio esistenziale contemporaneo, a suo avviso, non esplode più in crisi clamorose, ma si insinua nel quotidiano, si manifesta nei silenzi, nelle distanze, in quella solitudine che si fa abitudine. Le relazioni umane appaiono fragili, svuotate di profondità, e con esse sembra svanire anche la capacità di immaginare orizzonti collettivi.

Proprio al Teatro Ponchielli, Crepet ha chiesto: “Come state in questo mondo? Io male.” Una risposta che non è solo provocazione, ma testimonianza di un malessere diffuso, che attraversa la società senza fare rumore.

Tra gli scenari evocati, l’avanzata dell’intelligenza artificiale assume un ruolo centrale. Le previsioni che annunciano il superamento dell’intelligenza umana entro il 2027 sollevano domande che vanno ben oltre la tecnologia: toccano l’essenza stessa del vivere umano. Il vero rischio, secondo Crepet, non è la sostituzione dell’uomo, ma la perdita progressiva del senso del legame, dell’incontro con l’altro. L’esistenza diventa funzionale, automatica, sempre più priva di imprevisti — e per questo anche priva di intensità.

A questo proposito, ha evocato la possibile scomparsa delle trattorie, luoghi semplici e spontanei di condivisione. “Cibo portato a casa, poi divano, poi col cane al parco,” ha detto, descrivendo una sequenza in cui la tecnologia non semplifica la vita, ma la isola. Una quotidianità che scivola verso l’autosufficienza emotiva, in cui l’alterità diventa un ingombro e il confronto un rischio da evitare.

Crepet ha parlato anche di un’altra tentazione: quella dell’involuzione, del ritorno rassicurante a forme del passato svuotate però del loro significato originario. È una rivoluzione solo apparente, che non nasce da una consapevolezza critica ma da una necessità di protezione regressiva. Una fuga dalle complessità della realtà, in cerca di scorciatoie emotive, dove la fatica del dubbio, del conflitto e della riflessione viene aggirata.


In questo scenario, l’empatia — intesa non come sentimento generico, ma come capacità reale di entrare nel mondo dell’altro — rischia di diventare un muscolo atrofizzato. Non basta riconoscere l’altro: bisogna desiderarne l’incontro, accettarne la complessità, lasciarsi trasformare da essa. Ma tutto ciò implica tempo, attenzione, presenza. Tutto ciò che la fretta digitale, le risposte preconfezionate, l’algoritmo delle affinità tendono a sottrarre.

Eppure l’empatia continua a vivere, nei luoghi meno chiassosi, nei gesti che non fanno notizia. Nelle carezze che un genitore posa sulla testa del figlio prima di dormire. Negli abbracci silenziosi degli educatori ai bambini che piangono senza saper dire perché.

Nello sguardo attento di chi ascolta senza interrompere, nella mano che stringe un’altra con discrezione durante una crisi. In quegli atti semplici, ma radicali, che restituiscono all’altro la certezza di essere visto, accolto e importante. Sono questi i piccoli miracoli quotidiani che nessuna intelligenza artificiale potrà mai replicare. Non perché manchino i dati, ma perché manca l’anima. Manca quella scintilla viva che ci rende capaci di sentire con l’altro, non solo per l’altro. In un mondo che promette connessione, ma spesso consegna solitudine, l’empatia può tornare a essere una forma di resistenza. Un atto rivoluzionario di umanità.






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